Romanino al tempo dei cantieri in Valle Camonica

"Novembre di libri": al Buonconsiglio la prima tappa dedicata al pittore della Loggia 

Loggia di Romanino - Castello del Buonconsiglio [ © Castello del Buonconsiglio]

"Romanino al tempo dei cantieri in Valle Camonica", a cura di Vincenzo Gheroldi e Sara Marazzani, edito da La Cittadina Edizioni, ha aperto il "Novembre di libri" al Castello del Buonconsiglio.

Nella valle Camonica tra le chiese di Pisogne, Breno e Bienno, sono custodite le opere più importanti del Romanino e costituiscono la cosiddetta “Via del Romanino”. A Pisogne Romanino lavorò  il 1532 e il 1534, appena tornato da Trento. Affrescò la volta, l’arco e le pareti della cinquecentesca chiesa dedicata a Santa Maria della Neve: il ciclo della Passione di Gesù Cristo è stata definita dal critico Giovanni Testori come la cappella sistina dei poveri. A fine presentazione il pubblico  potrà ammirare la magnifica Loggia affrescata in castello dal Romanino  tra il 1531 e il 1532. 

Dal saggio dedicato alle chiese di Pisogne, Breno, Bienno, pubblichiamo un estratto che riguarda anche l'attività di Romanino presso il Castello del Buonconsiglio:

"Segnata fin dai suoi esordi da un’indole anticlassica, condivisa a quell’epoca da un manipolo di altri agguerriti pittori a lui coetanei, nella stagione della piena maturità la parabola romaniniana assume i contorni di un antagonismo al proprio tempo per certi aspetti ancora più radicale, apprezzabile in un rifiuto a piegarsi ai codici linguistici del manierismo – del suo culto per il disegno forbito, per la studiata invenzione, per la ricercatezza stilistica – che ha davvero pochi riscontri nella pittura di quegl’anni.

Una riluttanza che non è figlia di una difficoltà a registrare la contemporaneità, quanto piuttosto di un estro che non vuole scendere a compromessi e che consente a questo passaggio della storia dell’artista di proporsi, ai nostri occhi, come la sua stagione più entusiasmante: quella nella quale la sua indole, finalmente liberata, si esprime più compiutamente. Per capire almeno per sommi capi attraverso quale itinerario Romanino sia potuto approdare a questa condizione così felice è necessario gettare lo sguardo sugli anni antecedenti, a partire dalle vicende non altrettanto luminose della seconda metà degli anni venti, quando sulla strada del pittore incombeva il condizionamento di un confronto troppo serrato con Moretto e il suo linguaggio compassato, al quale forse l’avevano condotto le preferenze della committenza bresciana, fin da subito ben disposta nei confronti del suo concittadino un poco più giovane.

A togliere Girolamo dall’impasse aveva contribuito la provvidenziale convocazione nel Magno Palazzo trentino nel 1531, occasione di un mutamento di clima i cui frutti si faranno progressivamente sentire nel corso della grandiosa impresa per il principe vescovo Bernardo Cles, scandita da una crescita interna sul terreno dell’energia espressiva e della sperimentazione linguistica facilmente apprezzabile nel succedersi delle fasi del cantiere e già approdata a esiti spettacolari all’altezza delle figure affrescate nei pressi della scala che conduce dal giardino. è quasi certamente questo il luogo al quale fa riferimento il Cles in una celebre lettera inviata da Ratisbona nel luglio del 1532 in cui, dando conto di alcune voci che gli erano giunte da Trento, il principe vescovo ammoniva i soprastanti del palazzo di aver saputo “farsi al presente alchune figure, le quale non hanno quella venustade et proportione che doveriano; et in specie ni è stato referto de una Lucretia, la qual è in fronte de la scala che vien dal giardino: al che tanto più cura se li doveria havere, quanto il loco è più pubblico et in prospetto di tutti”. Da collegare forse alla sguaiata Didone collocata nel luogo indicato dalla lettera e facilmente equivocabile per una Lucrezia, in virtù dell’identico gesto autolesionistico, le parole del Cles si pongono alla stregua di un campanello d’allarme, utile a farci intuire come il pittore avesse rotto gli indugi e, liberato dai compromessi, fosse ormai disposto a sfidare le aspettative dei suoi committenti.

Di lì a breve, nei dipinti murali di Rodengo e di quelli di San Felice del Benaco, entrambi collocabili sul crinale del 1533, le conseguenze di quella svolta coraggiosa si renderanno palesi, nel segno di una deflagrazione delle forme e di un’esasperazione dei sentimenti e degli atteggiamenti che già preannunciano quelle di Pisogne e che, in quello stesso giro di mesi, il pittore dovette riproporre nel ciclo che decorava il chiostro dei morti del convento di San Domenico a Brescia, andato distrutto alla fine dell’Ottocento. A farci capire come anche in quell’impresa per un contesto così esigente e prestigioso Girolamo non avesse ceduto ad accomodamenti di sorta giungono infatti i referti ad essa dedicati da due commentatori ben informati quali Claudio Ridolfi e Francesco Paglia, concordi nel dare conto dei dissidi intervenuti in corso d’opera tra l’artista e i domenicani bresciani, intransigenti di fronte alla “bizzarrie” dei dipinti murali romaniniani, al punto di decidere di interrompere il suo impegno. Un secondo segnale di attrito, dunque, che nel registro dei tempi si pone come il più immediato antefatto della convocazione camuna del pittore, il cui percorso in valle deve dunque per forza essere letto tenendo sullo sfondo questi episodi e i loro riverberi sul fronte professionale".     

Vincenzo Gheroldi - curatore del volume

11/11/2016